Giovan Battista Pacichelli

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Giovan Battista Pacichelli nacque a Roma, probabilmente nel 1641, da genitori pistoiesi. Non si hanno notizie sull’identità del padre, mentre pare che la madre appartenesse alla famiglia degli Honorati (Lettere familiari, I, pp. 404-407). Ebbe sette sorelle, quattro delle quali presero i voti monastici (tre a Pistoia e una a Roma).

Da Roma si trasferì giovanissimo a Pisa, dove intraprese gli studi giuridici, laureandosi in diritto civile e canonico. Tornò quindi a Roma, dove proseguì gli studi e si laureò in teologia. Nel 1668 pubblicò a Perugia Il Giosia del Vaticano (dal nome del re biblico d’Israele), dedicato a papa Clemente IX.

Nel 1669 diede alle stampe, a Roma, lo Schediasma. De iis qui nullo modo possunt in ius vocari e l’anno dopo, sempre a Roma, la Vita del reverendissimo padre f. Gio. Battista de’ Marini maestro generale dell’Ordine de’ predicatori, Della vita della venerabile suor Maria Vittoria Angelini romana tertiaria dell’Ordine dei servi, e I portenti del Divino Amore espressi nella vita della b. Rosa di Santa Maria Limana del Terz’ordine di San Domenico. Del 1672 è la stampa delTractatus juridicus de distantiis. Nello stesso anno fu nominato uditore generale alla nunziatura apostolica di Colonia.

Partì da Roma a fine anno, facendo sosta lungo il tragitto a Firenze, Siena e Pistoia per salutare i familiari. Attraverso Lugano, giunse a destinazione nella primavera del 1673. In quello stesso anno pubblicò a Colonia la Chiroliturgia, sive de varia, ac multiplici manus administratione…, «dove principalmente si trattiene a parlare sulla natura, sulla utilità, e sull’uso della mano» (Capponi, 1878, p. 290), cui seguì, due anni dopo, sempre a Colonia, la Diatribe de pede.

Negli anni della nunziatura, effettuò numerosi viaggi nell’Europa centrale, settentrionale e meridionale, ed «ebbe occasione... di trattare con diversi principi, e ministri di Stato, come anche di osservare le migliori biblioteche, e conoscere i più distinti letterati, che in vari luoghi fiorivano» (Soria, 1781, p. 462). Nel luglio 1673 visitò il Belgio e l’Olanda; nel marzo 1674 si recò a Utrecht, tornò a Colonia e ripartì a maggio per Rotterdam, l’Aia e Amsterdam. Tornato in Germania, andò a Brema, Amburgo e Lubecca. A giugno si spostò a Bruges e quindi in Francia, dove visitò Parigi, la Champagne e l’Artois, per poi giungere nelle Fiandre. Tornato in Germania, continuò a viaggiare fra la Westfalia e la Sassonia, nell’autunno 1674 si recò a Colmar e a Magonza. Nella primavera del 1675 fu la volta dell’Inghilterra, della Scozia e dell’Irlanda; quindi, preso il mare da Dover, giunse in Portogallo e di lì passò in Spagna. Rientrato brevemente a Colonia, nel 1676 intraprese un lungo viaggio attraverso la Svezia, la Danimarca, l’Austria, la Polonia e l’Ungheria. L’anno seguente visitò la Provenza, il Delfinato, la Savoia e ritornò in Italia, dove continuò a spostarsi fra Venezia, Ferrara, Bologna, Modena e Reggio.

Rientrato a Roma dalla nunziatura nel 1677, dopo qualche mese passò a Parma, presso la corte del duca Ranuccio II Farnese, che lo nominò agente generale dei suoi possedimenti nel Mezzogiorno (Castellammare, Altamura, Leonessa, Cantalice, Montereale, Campli, Vetrana). Si trasferì dunque a Napoli nel 1679.

Come agente dei Farnese dovette affrontare problemi di ogni sorta legati all’ordinaria amministrazione dei feudi e alle richieste dei cives delle singole universitates, ma anche eccezionali, come la deduzione in patrimonio (cioè sotto la diretta amministrazione finanziaria da parte della Camera della Sommaria), di uno dei feudi farnesiani più importanti, quello di Altamura in Terra di Bari (Arch. di Stato di Napoli, Arch. Farnesiano, f. 2020; v. Relazione sopra le gabelle di Altamura, 1685; Lettere familiari, istoriche et erudite tratte dalle memorie recondite dell’abate Gio. Battista Pacichelli in occasione de’ suoi studj, viaggi, e ministeri, Napoli 1695, I, pp. 226-228). Secondo Pacichelli, la responsabilità della critica situazione finanziaria della città era da imputarsi agli stessi abitanti del luogo, che non avevano agito «con sincerità né con fede» (Arch. di Stato di Parma, Carteggio farnesiano estero, Altamura, b. 270: Lettera dell’abate Pacichelli al duca di Parma, Napoli, 26 novembre 1686, cit. in Masi, 1959, p. 207), ma con «fraude e raggiri» (Lettera dell’abate Pacichelli al duca di Parma, Napoli, 22 novembre 1687, cit., ibid., p. 216). Per porvi rimedio, egli stesso propose di caricare la tassa sul macinato «per lo sollievo de’ Poveri, più che si può a’ Gentilhuomini et altri facoltosi in vantaggio della Ducal Camera pe’ crediti e per le spese» (Lettera dell’abate Pacichelli al duca di Parma, Napoli, 15 aprile 1687, cit., ibid.). Ma il suo tentativo risultò «azzardoso» (Lettera di Ascolese  [governatore farnesiano di Altamura nel biennio 1686-87] al duca di Parma, Altamura, 30 settembre 1687, cit., ibid.) e pertanto fallì.

Pacichelli dovette anche difendersi dagli attacchi personali di un nobile di Altamura, che lo accusò di «mala condotta», denunciando ai Farnese «la sua totale disapplicazione fuori che a recitar Pater nostri» (Arch. di Stato di Napoli, Arch. Farnesiano, f. 2019, Lettera del capo dell’Azienda [l’insieme di rendite, attività e beni feudali dei Farnese]), Parma, 7 febbraio 1681). In un primo momento a Parma fu valutata l’ipotesi di rimuoverlo dal servizio, ma, dopo che egli ebbe presentate le sue ragioni, fu lasciato al suo posto. Non fu questa tuttavia l’unica volta in cui i Farnese espressero delle riserve sul suo operato: in un’altra occasione, il duca lamentò il fatto che egli fosse «unicamente intento a pescare erudizioni antiche nelle librerie dei claustrali ed a stampare operette di proprio genio» (cit. in Don Fastidio, Notizie e osservazioni,  in Napoli nobilissima, IX [1900], p. 144).

Pacichelli mantenne il suo incarico per 15 anni, declinando l’offerta di una cattedra all’Università di Pisa. Rinunciò anche al vescovato di Ferentino, offertogli da papa Innocenzo IX, dato che, come scrisse, «i vescovadi sono luoghi di fatiga, e non di riposo… Né diviene agevole, o sicuro l’esimersi dalla risiedenza» (Lettere familiari, 1695, II, p. 321). Risiedette stabilmente a Napoli, in una sontuosa dimora oltre porta Costantinopoli, godendo di «somma riputazione così presso il viceré, come presso i Letterati e i Nobili» (Soria, 1781, II, p. 463).

Tuttavia, non amò la città, dove si guardava «sempre dalle forme sporche e indiscrete de’ tavernieri, pasticcieri, barbieri e molte altre sorti di botteghieri» (Memorie de’ viaggi, 1685, IV, 1, pp. 31 s.) e dove si stupiva per usanze che riteneva stravaganti – «si aborrisce universalmente il passeggiar per le strade, usandosi le segge fronte a ogni parte, e in qualsiasi tempo» (ibid., p. 145) – o malsane: i «Napolitani vivono meno de’ Romani, perché habitan male, gustano il vino sulfureo: per le troppi herbe, frutti, acqua ed olio: per l’intemperanza, mangiando troppo spesso, e per le soverchie paste» (Lettere familiari, 1685, II, indice delle materie, ad v.Napoli).

Da Napoli si allontanò tutte le volte che se ne presentò l’occasione, compiendo numerosi viaggi nel Mezzogiorno continentale, in Sicilia e a Malta. Fissò le sue impressioni di viaggio – ricche di osservazioni acute e vivaci – nelle Memorie de’ viaggi per l’Europa christiana, pubblicate a Napoli nel 1685 (cinque tomi in 4 volumi), e nelle successive Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa cristiana, uscite sempre a Napoli nel 1691 in due tomi. Nel 1691 intraprese la stesura de Il Regno di Napoli in prospettiva, che concluse alla fine del 1692. Quello stesso anno, si trasferì per qualche tempo a Roma, felice di interrompere la «troppo lunga… quarantena» napoletana (Lettere familiari, 1695, I, p. 236) e di «esser risorto, fra le maniere più civili, e discrete, di vivere, e di operare» (Memorie de’ viaggi, 1685, IV, 2, p. 319), lontano dai «piccioli affari, conforme appunto son hoggi quei del Regno per disgratia di chi gli maneggia» (ibid., p. 320). Nel 1693 videro la luce a Napoli il De tintinnabulo nolano, sull’origine delle campane, e un’opera sulle origini delle maschere, delle parrucche e dei guanti (Schediasma juridico-philologicum tripartitum in otio Romano canicolari anno Christi MDCXCII de larvis, de capillamentis, de chirothecis, vulgo, mascheris, perruchis, guantis…).

Nel 1694, alla morte di Ranuccio II, rinunciò al suo incarico presso i Farnese, lasciando «volentieri a’ signori parmegiani, ad ogni ministro di affari piccioli, ed à chiunque vive di opinione, le stanze di Napoli e qualsiasia preminenza nel Regno, per quelle di Roma, lungo tempo sospirate e richieste» (Lettere familiari, 1685, II, p. 376). Fu comunque a Napoli che vennero pubblicate nel 1695 le Lettere familiari, storiche e erudite.

Morì a Roma nel 1695.

La sua opera più nota è la corografia Il Regno di Napoli in prospettiva, diviso in dodici provincie, in cui si descrivono la sua metropoli, le sue 148 città, e tutte quelle terre delle quali se ne sono avute notizie, colle loro vedute diligentemente scolpite in rame, oltre alla carta generale del Regno, e quelle delle dodici provincie... (il titolo prosegue a lungo illustrando minuziosamente il contenuto). Articolata in tre tomi, in formato in quarto, l’opera venne pubblicata postuma a Napoli nel 1703, per iniziativa di due noti editori del tempo, Michele Luigi Muzio e Domenico Antonio Parrino. Il primo volume, dedicato a Giovanni Domenico Milano, marchese di San Giorgio, venne stampato da Muzio; il secondo, in onore di Francesco Caracciolo, figlio maggiore del duca di Martina, presso la stamperia di Parrino; il terzo, in onore di Nicola d’Avalos, primogenito del principe di Troia ed erede del principe di Montesarchio, venne finanziato da entrambi.

Il Regno di Napoli in prospettiva si poneva su una linea di continuità con opere dello stesso tenore apparse fra XVI e XVII secolo. Il precedente più illustre era stata la Descrittione del Regno di Napoli di Scipione Mazzella, la più antica corografia erudita riguardante l’intero Mezzogiorno continentale, pubblicata a Napoli nel 1593. Ma la Descrittione si ispirava alla tradizione di opere odeporiche umanistiche, che risaliva sino all’Italia illustrata di Flavio Biondo e alla Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti, discostandosi, al tempo stesso, dalle precedenti descrizioni del Mezzogiorno di Pandolfo Collenuccio, Francesco Mascardi, Camillo Porzio, Marino Freccia, per lo più incentrate sulla sola capitale. Alla Descrittione di Mazzella aveva fatto seguito nel 1606, con lo stesso impianto, Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie di Arrigo Bacco, seguito da numerose ristampe, fino alla scomparsa del nome stesso dell’autore, sostituito nel 1640 da quello dell’editore Ottavio Beltrano nelle vesti di curatore dell’opera. Rispetto a questi precedenti, Il Regno di Napoli in prospettiva si presenta come un’opera più matura e pregevole dal punto di vista letterario, che offre un quadro più puntuale e articolato della realtà provinciale e urbana.

Nelle 500 carte autografe di Pacichelli, che compongono il cuore dell’opera, confluirono i ricordi e le suggestioni dei luoghi visitati dall’autore nei suoi numerosi viaggi. Alle informazioni di prima mano si aggiunsero, per le epoche più antiche, oltre alle notizie tratte dai compendi storico-geografici che circolavano a quell’epoca (soprattutto di Filippo Cluverio e Flavio Biondo) e dalle sue personali reminiscenze letterarie, anche elementi desunti dagli scritti di autori locali e dalle trascrizioni delle carte di fondi archivistici napoletani, come la Cancelleria angioina e la Camera della Sommaria.

Le notizie ricavate da questa congerie di fonti riguardavano i caratteri fisici del territorio, la storia, il patrimonio culturale e le tradizioni popolari, il profilo demografico e sociale, le forme di coltivazione del suolo, le specificità climatiche, i caratteri economici, le particolarità architettoniche, la composizione della compagine ecclesiastica, con numerose concessioni ai mirabilia.

Per adeguare l’opera agli standard dell’epoca, che generalmente prevedevano cataloghi eruditi, statistiche e cronologie, gli editori Muzio e Parrino la corredarono con la lista delle dinastie che si erano succedute nel Mezzogiorno dopo la caduta dell’Impero romano, gli elenchi dei re e viceré di Napoli, dei capitani generali, una nota sui Sette Uffici, una rubrica dei papi e cardinali meridionali, un catalogo della nobiltà napoletana e regnicola, nonché i dati demografici ricavati dalle numerazioni dei fuochi del 1648 e 1669. Parrino curò anche un compendio di leggi, prammatiche, statuti e consuetudini in vigore nel Regno e nella capitale.

Le incisioni sono opera di Francesco Cassiano de Silva, artista di origine spagnola, che alle tavole geografiche, relative alle province del territorio regnicolo, affiancò le ‘prospettive’ dei principali centri urbani meridionali. Per realizzarle, utilizzò in parte una serie di tavole da lui precedentemente composte e in parte rielaborò immagini preesistenti risalenti a epoche precedenti. Compose infine ex novo le vedute mancanti, a partire da disegni ricavati dall’osservazione diretta dei luoghi.

Il Regno di Napoli in prospettiva riscosse elogi, ma anche critiche severe. Francesco Antonio Soria scrisse che «l’opera sarebbe commendevole se fosse animata dal necessario discernimento, che si desidera in quasi tutte le altre opere di questo scrittore» (1781, pp. 463 s.). Lorenzo Giustiniani si spinse fino a dire che si trattava di opera «scritta veramente da uomo acciabattante qual egli era» (1793, p. 110). Pietro Antonio Corsignani osservò che nel Regno di Napoli in prospettiva si riscontravano «vari abbagli com’è solito far in quella sua opera, affastellata senza discernimento» (1738, I, p. 277); Gian Donato Rogadeo sostenne che Pacichelli «senza critica alcune accozza[va] notizie triviali» (1767, p. 66). Altri ancora sollevarono dubbi sull’autenticità delle informazioni riportate, nelle quali si sarebbe dovuto «distinguere ciò che egli stesso ha veduto, da ciò che ha udito narrare per tradizione» (Tiraboschi, 1793, p. 98).

Dopo quella di Pacichelli, nel 1794 vide la luce un’altra opera di impianto simile: la Descrizione di tutt’i luoghi che compongono le dodici provincie del Regno di Napoli, scritta dal togato napoletano Gerardo Cono Capobianco. A fine secolo, iniziò la pubblicazione del grande Dizionario geografico di Lorenzo Giustiniani, in cui l’enorme massa di insediamenti meridionali (circa 4000) non venne più raggruppata per provincie, come era stato nelle opere precedenti e nello stesso Regno di Pacichelli, ma disposta in un unico elenco. Era il segno che i tempi stavano mutando definitivamente. L’avvio delle grandi inchieste pubbliche promosse dal potere centrale – dalla Descrizione di Giuseppe Maria Galanti all’Atlante di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni – sancì la fine della produzione delle corografie erudite, conferendo alla descrizione del territorio un impianto più neutro, secondo la moderna concezione geografica.

Un’edizione anastatica parziale del Regno di Napoli in prospettiva è apparsa con il titolo Puglia ieri. Il Regno di Napoli in prospettiva..., Bari 1976.

Fonti e Bibl.: P.A. Corsignani, Regia Marsicana, Napoli 1738, I, p. 277; G.D. Rogadeo, Saggio di un’opera intitolata il diritto pubblico e politico del Regno di Napoli, Lucca 1767, p. 66; F.A. Soria, Memorie storico-critiche degli storici napoletani, II, Napoli 1781, pp. 462 s.; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VIII, 1, Modena 1793, p. 98; L. Giustiniani, La biblioteca storica, e topografica del Regno di Napoli, Napoli 1793, p. 110; N. Falcone, Biblioteca storica topografica delle Calabrie, Napoli 1846, p. 60; V. Capponi, Biografia pistoiese o Notizie della vita e delle opere dei Pistoiesi, Pistoia 1878, p. 289; G. Masi, Altamura farnesiana, Bari 1959, pp. 207, 216; Viaggiatori del Seicento, a cura M. Guglielminetti, Torino 1967, pp. 664-668; G. Amirante - M.R. Pessolano, Immagini di Napoli e del Regno. Le raccolte di Francesco Cassiano de Silva, Napoli 2005; F. De Pinto et al., Carte dei moderni, repertori degli antichi. Per una cartografia dell’insediamento pugliese fra antico regime e monarchia amministrativa, in Atlas. Atlante storico della Puglia moderna e contemporanea, a cura di A.L. Denitto, Bari 2010, pp. 7-28.